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Mauro Galantino

Progettare gli interstizi tra forma e funzione

Mauro Galantino
Architetto, professore associato di Composizione architettonica e urbana allo Iuav di Venezia, si è formato tra Firenze, Parigi e Milano, con maestri quali Piano e Gregotti. Nel corso della trentennale pratica del suo studio milanese, ha realizzato opere private e grandi opere pubbliche; ha partecipato a numerosissimi concorsi nazionali e internazionali, ottenendo molti premi in Italia e in Europa, in diversi casi costruendo le proposte vincitrici.

Questo numero di CIL è dedicato ai luoghi di culto. In Italia non vi sono esempi progettuali recenti che esaudiscano contemporaneamente il criterio di ricerca e l’utilizzo del laterizio. La sua chiesa di S. Ireneo a Cesano Boscone, ultimata nel 2000 (e pubblicata su CIL 123, maggio-giugno 2008) rimane un modello di riferimento. Quali criteri l’avevano spinta a utilizzare il mattone per alcuni dei volumi e degli elementi di quel progetto? Quali le differenze dal punto di vista della scelta dei materiali tra questo progetto e la successiva chiesa di Modena?

La scelta del laterizio in Cesano deriva da molteplici ragioni e concorre a definire un’idea di presenza dell’opera, non solo fisica, ma concettuale. Il concorso era previsto su due luoghi, Cesano e il quartiere Gallaratese, per due chiese: S. Ireneo e S. Romano. Entrambi luoghi con una preesistenza ambientale scarsamente urbana, rarefatta, priva di elementi definiti per lo spazio pubblico. Le due chiese facevano ufficio di supplenza, costruivano un microurbanesimo con una monofunzione. Da qui la necessità di presentarsi come un “prima” rispetto alla costruzione fisica del mondo circostante, prodotto più da processi che da progetti. Il mattone era un richiamo voluto a S. Ambrogio, che ho lungamente visitato con gli occhi di chi doveva progettare un edificio senza avere titoli “spirituali” per fare scelte. Un po’ con la cenere sul capo! La seconda ragione attiene alla questione annosa di un edificio con una sola attività che si propone come frammento urbano. Artificio, non falsità. 

Ma perché l’artificio funzioni occorre risolvere problemi di paesaggio senza compromettere la vocazionalità dell’attività prevalente. Così in S. Ireneo il progetto si “disunisce “ per ampliare le capacità di aderenza alle difficili condizioni ereditate: aula, cappella, campanile, servizi, il tutto tenuto da un progetto di suolo che li fa leggere come parti di un sistema. A sua volta l’aula si organizza con una “scomposizione”: un edificio contestuale in mattoni che regola le relazioni con il quartiere (rendendo leggibile fisicamente il ruolo del basamento sulle facciate) e un edificio funzionale in cemento, che regola la liturgia. Nello sdoppiamento tra i due edifici si realizza un recinto di luce, che costituisce la vera innovazione di questo progetto, definito dall’arcivescovo Martini, con mia profonda gratitudine: “Molto antico e molto moderno”. Il mattone segna anche la differenza tra gli edifici costruiti in clinker da Ponti e le “scatole di Merit” IACP attigue realizzate con cappotto “tatuato”. Una differenza che individua la singolarità dell’edificio pubblico. A Modena, la riflessione sul recinto di luce prosegue, diviene più complessa e più matura (meglio dire più sicura di non fare errori, come temevo nella prima prova). Tutto il quartiere antistante, ordinato da un giardino lungo 400 metri, è realizzato in laterizio. Così la chiesa è bianca, come il cimitero di Rossi, come la pietra della cattedrale.

Lei ha affermato di aver assimilato il grande ribaltamento attuato dal movimento moderno: la “casa di Dio” si deve costruire come la “casa dell’uomo”. Può approfondire questo passaggio e chiarirci quali sono per lei gli elementi costitutivi di un progetto, a prescindere dalla sua tipologia e destinazione d’uso? 

Casa di Dio è casa dell’uomo, una precisazione ovvia. Credo che anche “quando le cattedrali erano bianche” la chiesa sia sempre stata la casa degli uomini che credono. Dio non ne ha bisogno. La casa del dio è il tempio, dove i sacerdoti egiziani, fenici, romani etc. “facevano vivere” la divinità. L’accentuazione sulla comunità viene dal Concilio Vaticano II. 

Oltre la forzatura ideologica degli anni Sessanta, la difficoltà sta nel mettere in un programma che sembra immutabile elementi che facciano “sentire” la spiritualità contemporanea. Vale per le chiese, ma anche per le scuole, i tribunali e la casa di abitazione. Nel caso di Sant’Ireneo ho operato una scelta che è diventata importante per tutto il mio lavoro. È lì che ho scoperto la non coincidenza tra forma e funzione, che ho capito quello che il lavoro dei maestri del Moderno ci ha lasciato come testimonianza silenziosa. In un’attività prevalente (scuola, chiesa, fabbrica o altro) noi restiamo sempre identici, con i nostri problemi, ansie, visioni del mondo. Non esiste una “funzione” che ci assorba completamente. Tadao Ando, pronunciando poche parole (come suo solito) all’inaugurazione di Fabrica per Benetton, disse: “sviluppo un progetto perché quello che ci si fa dentro produca il minimo attrito, così le persone possono pensare ad altro”. Icastico e fondamentale. La forma maggiore, che guida un’attività prevalente, dev’essere “accogliente”, ma non si risolve con la funzione accolta, si risolve con l’adesione spirituale di chi svolge quell’attività, nello spirito che alberga il tempo. Non la sua caricatura (facciate come schermi di tablet). 

Per me il tempo che abito è quello di individualisti socievoli, persone che non sono mai, completamente, in un luogo. Nomadi inevitabili, espressione involontaria di una diaspora che non ci lega mai più a un solo luogo, anche se quello di nascita è un luogo dell’anima. Siamo sempre altrove, anche quando siamo concentrati su qualcosa o con qualcuno. Per questo le mie chiese sono connotate da spazi esterni inglobati nello spazio della chiesa, le scuole da gallerie che sono più importanti delle aule, le abitazioni da un mix tipologico che costruisce luoghi d’incontro. Far parte di una celebrazione, sentita e vissuta intensamente, non riduce il bisogno di sentirsi un po’ soli, un po’ protetti dal poter per un attimo guardare il cielo e non la sua simulazione tipologica, come l’architettura sacra ha sempre fatto. Brunelleschi dava a immaginare l’infinito con la sua griglia tridimensionale di S. Spirito, Michelangelo con i cambi di scala della cappella Medicea, ma il cielo vero che irrompe in una chiesa è S. Galgano, è una chiesa e anche il suo superamento, la promessa di una condizione di infinito che trascende la finitezza. Come diceva Kahn: “Ogni uomo è più grande della sua opera, l’uomo contiene l’infinito, l’opera è quello che si può realizzare con mezzi finiti. Da come è fatta ci può ricondurre all’immisurabile attraverso il misurabile”.

In quali altri progetti ha utilizzato il laterizio e quali sono state le motivazioni di tale scelta?

Ho usato il laterizio ad Arezzo, per un sistema di tre scuole, una biblioteca e una palestra. Mi serviva un materiale che desse il senso di sospensione del tempo. Le scuole erano previste dalla legge Falcucci per un arco di tempo non prevedibile; infatti ho cominciato nel 1988 e ho finito tre anni fa. Senza il mattone non ce l’avrei fatta! Nella scelta ero facilitato dall’uso smodato che in tempi di “Architettura della città” veniva fatto del materiale, con la presunzione di parlare con il passato più agevolmente. Illusione che ha prodotto non poche semplificazioni, opere che col tempo parlano molto più della data di progettazione, che delle preesistenze ambientali con le quali pretendevano di dialogare. Nel mio caso era la scelta di parlare con il futuro, o meglio di uscire dall’ossessione dello zeitgeist (in quel periodo particolarmente orientato al tempo passato) ma garantire un tempo futuro che assicurasse ai pezzi dell’edificio una continuità malgrado la scansione delle fasi realizzative. Poi era l’occasione per ragionare sul doppio muro: la parte portante interna con calcestruzzo a vista, il manto di coibentazione e il muro esterno. Come si toccano i due muri nei punti di trasparenza (finestre-porte), come si costruisce il muro di calcestruzzo armato per “reggere” il secondo, come s’irrigidisce il muro in laterizio su pareti alte e in presenza di architravi, come il serramento passa dal ruolo di elemento portato a elemento parzialmente portante. Tutte domande che erano già state poste molte volte (tra le innumerevoli realizzazioni della scuola di Amsterdam, una per tutte il meraviglioso dispensario medico per bambini di J. J Oud ad Arnheim), ma che, riproposte, danno il senso della nostra disciplina: guardare, imitare, evolvere. Seguendo l’insegnamento picassiano che ripeteva “gli artisti imitano, i geni copiano”, mi limito dunque all’imitazione.

Nel suo studio la pratica concorsuale ha un grandissimo peso. Avete un’esperienza pluriennale nella partecipazione ai concorsi con all’attivo la vincita di numerosi premi (il più recente: primo premio al concorso internazionale di progettazione del comparto di piazza Repubblica - ex Caserma a Varese). Può raccontarci com’è cambiato secondo lei lo scenario dei concorsi di progettazione negli anni, specie in Italia?

La pratica concorsuale è una malattia ereditaria di cui, da buon figlio, ringrazio i genitori culturali che mi sono scelto: Savioli, Piano, Ciriani, Gregotti e altri che ho frequentato da giovane. Purtroppo in Italia non esiste ancora una legge specifica sui concorsi di architettura e i risultati si vedono. Ma il concorso resta l’unico passaggio democratico del costruire. Non sempre i progetti migliori vincono (io ne ho vinti molti e quindi mi metto direttamente in discussione). I concorsi li vincono e perdono le giurie; noi partecipiamo. Ma con i soldi pubblici è tassativo far vedere ai cittadini cosa si è scelto per loro. A parità di prezzo il mercato automobilistico ci offre molti modelli. Non è il costo che decide, ma cosa si fa con quell’investimento. Le gare Merloni sono un abominio. Scegliere un progettista sulla base dell’offerta di costo del suo lavoro è idiota (e io ne ho vinti alcuni). Nel migliore dei casi incide per l’8% dell’investimento. Il 92%, senza concorso, non si sa cosa sarà. Si può? Inoltre la pratica del concorso è scelta spesso dai privati (guarda caso le più grandi opere private italiane sono realizzate con concorso: City Life, Bocconi, Chiese CEI, Bicocca), a dimostrazione del valore anche commerciale che la ricerca culturale aggiunge all’investimento. Mentre per il mercato pubblico i casi di realizzazione di concorsi faticano a costruirsi o sono sfigurati dalla prassi dell’appalto integrato dove, da un progetto iniziale, si arriva a un altro per l’affidamento a terzi della realizzazione esecutiva (palazzo del cinema di Venezia docet!). Per non parlare dei concorsi appalto o del project financing o della manifestazione d’interesse, dove l’investitore propone in luogo dei poteri pubblici, peggio, viene delegato dai poteri pubblici. Si tratta di una politica che non decide per paura di perdere consenso. 

Quando insegnavo a Girona, la trasformazione del centro storico post-olimpiadi è stata impressionante, ma tutti i progetti di ammodernamento della piccola città storica erano decisi con concorsi e il sindaco della città lo incontravo, ogni mattina, sul cantiere delle opere di pedonalizzazione del Barrio Central, uscendo da casa. Una legge sui concorsi di architettura rimetterebbe in equilibrio i ruoli: obbligo di associazione tra architetto e società d’ingegneria, distinzione dei compiti. Rimetterebbe in campo le professionalità comunali: rete di uffici per organizzare i concorsi con consulenti pubblicamente noti che scelgono le giurie (prima del concorso) dando un segnale culturale sulla direzione scelta dall’amministrazione; renderebbe trasparente il consenso (o il dissenso) della popolazione circa le scelte fatte. Renderebbe possibile pensare i PRG o Piani strutturali, come corografie di aree coordinate dall’alto, ma realizzate dal basso con concorsi (esempio rarissimo, tra pochi altri, il comune di Pesaro diretto per dieci anni dall’arch. Goffi). Tutte scelte in conflitto con il bisogno di consenso a tempo breve, che è il vero problema della politica attuale. Quindi una legge che non si farà mai. Ci lamentiamo della qualità del nostro paesaggio, ma io, che abito a Cadorna, ho scoperto la trasformazione della piazza disegnata da Aulenti solo dopo la costruzione. Ed è uno dei casi positivi.

Nelle sue architetture esiste sempre un dialogo tutto interno dato da montaggio, sovrapposizione e ibridazione di forme semplici e contemporaneamente una dilatazione verso l’esterno e uno scambio con la cosiddetta geografia. Come affronta il rapporto tra edificio e paesaggio? Può presentarci un caso studio che ci esemplifichi attraverso quali soluzioni concrete e quali valori immateriali l’architettura s’inserisce nel paesaggio (o viceversa?)

Recentemente ho dovuto spiegare in un’altra lingua che la logica abusata di “contesto” è una bufala. Non esistono contesto e oggetto. Esistono un paesaggio preesistente e un paesaggio rinnovato. Non il nuovo nel vecchio, ma una metamorfosi. La capacità trasformativa del progetto è un problema di scala, non sempre la poca quantità modifica poco. Modifica sempre moltissimo. Bisogna esserne coscienti. Forse il progetto più difficile è stato, a questo proposito, un agriturismo sul Gargano, con sei appartamenti connessi da spazi comuni su una pendenza di 6 metri. Dove la responsabilità era continuare a modificare quel paesaggio incredibile, soprattutto per chi lo coglie dal mare, con le stesse caratteristiche della storia, pur producendo edifici assolutamente contemporanei. Ma la convinzione di essere autori di paesaggi, piccoli o grandi secondo i programmi e le capacità modificative delle inserzioni, ci aiuta a pensare il nostro lavoro non solo come risposta aderente alle necessità del cliente, ma anche a quelle che il cliente non è tenuto a considerare, ma che gli ritornano in tasca se il suo intervento appare congruente con il bene comune. 

Ci aiuta a pensare l’architettura per quello che è. Gli Strozzi, i Davanzati, gli Sforza, almeno nel ruolo che avevano, non esistono più. Anche il contenuto di quelle opere che erano destinate all’abitare, è migrato verso altri usi, ma una quota di permanenza ha cambiato il paesaggio da loro modificato irrevocabilmente. I segni restano. Con una durata non più eterna, ma, come ironicamente sottolinea Frampton, sufficientemente lunga da prenderla molto sul serio.

Mina Fiore
Architetto, libero professionista