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Marlier Rohmer

Inclusività è sentirsi “a casa”

Marlies Rohmer (Rotterdam, 1957), subito dopo la laurea presso Delf University of Technology, nel 1986 fonda il suo Studio che, da quasi quarant’anni, lavora con i più diversi committenti e spazia con agilità dall’ampio gesto urbano all’intervento più minuto. Tra i numerosi interventi pubblici rientrano gli edifici per la cura e il supporto del le fragilità, nei quali sviluppa una forte attenzione alle complessità emozionali e psicologiche oltre che materiali dell’utenza, in un processo di “normalizzazione” della diversità e di transizione del luogo di assistenza da spazio istituzionale ad ambiente domestico accogliente e stimolante.

Il Suo Studio, Marlies Rohmer Architecture & Urbanism, opera dal 1986 in Olanda e all’estero, spaziando dall’ampio gesto urbano al dettaglio più minuto: dall’urbanistica, agli interventi residenziali, agli edifici pubblici (tra cui scuole e residenze protette), all’interior design. Esiste un “fil rouge” nelle diversità di scala e programmi?
Credo che un comune denominatore del mio lavoro sia la ricerca di integrità, il tentativo di realizzare edifici che sappiano reggere il test del tempo. Edifici che non invecchiano o che lo fanno con decoro, anzi assumendo una “patina” che li rende vivi e, talvolta, ancora più interessanti con gli anni rispetto a quando sono stati costruiti. Per questo, faccio ampio uso del laterizio: è un materiale versatile, che si presta
a soluzioni tessiturali, cromatiche e figurative diverse. I patterns di facciata, con le loro variazioni, consentono di assorbire le trasformazioni del materiale nel corso del tempo, rendendole meno impattanti in modo “naturale” e sfumando le imperfezioni che con il tempo inevitabilmente si registrano.
La cura del dettaglio è fondamentale per garantire la felice sopravvivenza di un’opera: un’architettura durevole non deriva mai dall’”avarizia” ma esprime generosità nel senso di tecniche e materiali affidabili, di soluzioni costruttive efficienti, di ricchezza compositiva: elementi che rendono più difficile che un’opera venga demolita, anche se dovesse cambiare destinazione d’uso nel tempo.
Inoltre, è importante che l’edificio mantenga integrità non solo da un punto di vista tecnico-costruttivo ma anche nelle relazioni con il contesto. Un ulteriore aspetto ricorrente nel mio lavoro è l’esigenza di costruire relazioni tra spazio pubblico e privato, tra esterno e interno, nella concezione di un’architettura “multidimensionale” che registra le complessità del contesto fisico e sociale in cui si situa e le trasforma in possibilità attraverso un lessico di contrasti, di stratificazioni, di sorprese inaspettate. Per questo posso concepire allo stesso tempo spazi umbratili e radiosi, chiari e scuri, estroversi o riservati e, da un punto di vista dei materiali, murature massive in laterizio o superfici evanescenti in acciaio e vetro: un’architettura multidimensionale è espressione della complessità del contesto e delle caratteristiche dell’utenza, e non è mai la sommatoria delle parti ma l’integrazione tra queste.

Negli ultimi anni il tema dell’accessibilità in architettura è stato riassunto dai concetti di “Design for All”, “Inclusive Design” o “Universal Design”, adottati da Enti e aziende che assumono come prioritaria la fruibilità di uno spazio per il maggior numero di persone, indipendentemente dall’età o dalle capacità motorie, sensoriali e cognitive. Che cos’è per lei un’architettura accessibile e inclusiva?
In Olanda c’è una storia consolidata in materia di accessibilità in architettura, dall’housing agli edifici pubblici. Penso però che sia ancora dominante un approccio “istituzionale” che spesso si limita a rispondere a requisiti strettamente “dimensionali” piuttosto che indagare sulle modalità di risposta a bisogni altrettanto importanti di quelli logistici, quali quelli psicologici ed emotivi. Credo che un’architettura veramente accessibile debba spingersi a toccare le corde più intime e personali di chi la vive, facendolo stare come “a casa” in uno luogo dove sentirsi protetto e al contempo dove trovare occasioni di socialità, dove essere assistito ma anche potersi esprimere in modo autonomo.
Sono ovviamente importanti i temi della sicurezza, per garantire una fruizione dell’edificio senza pericoli, e la flessibilità per consentire di allestire lo spazio in relazione all’evolversi nel tempo delle esigenze dell’utenza. É necessario che il layout distributivo non si limiti solo a “collegare” gli ambienti come un tradizionale corridoio ma che diventi un’esperienza cognitiva, una sorta di viaggio interno in cui esplorare
sensazioni tattili, visive, olfattive secondo un principio circolare e non lineare. Questo è stato fatto in KJC Heliomare, ad esempio. Oltre a questi aspetti, è importante anche che gli ospiti possano sperimentare il passaggio delle stagioni attraverso il rapporto tra spazi interni ed esterni, godere del piacere della musica, sentirsi “scaldati” da un focolare domestico, in un processo di “normalizzazione” che rende la permanenza nel luogo di cura e assistenza come un’esperienza tranquillizzante e quasi “ordinaria” ma al tempo stesso arricchente.

Parliamo di KJC Heliomare, un centro innovativo che offre istruzione, riabilitazione, sport ed esercizio fisico a più di 500 bambini e ragazzi con disabilità. Può raccontarci quali sono state le scelte progettuali che Lei ha adottato, da un punto di vista sia compositivo sia dell’accessibilità dell’edificio?
In KCJ Heliomare ho cercato di tradurre gli obiettivi di cui parlavo prima. I bambini e ragazzi che ricevono cure educative e riabilitative presso KJC hanno una disabilità fisica, intellettuale, socio-emotiva o multipla con diversi gradi di indipendenza. In particolare, molti ospiti hanno disabilità visive. La sfida è stata progettare un edificio sicuro, in cui fosse facile orientarsi e che fosse, da un lato, il più “ordinario” possibile, rassicurante e accogliente, ma anche stimolante: il layout distributivo, l’acustica, l’illuminazione, la scelta di materiali con le giuste qualità tattili e cromatiche sono di grande importanza.
Da un punto di vista funzionale, il complesso ha un impianto molto semplice e intuitivo, che favorisce l’orientamento: oltre alle normali funzioni scolastiche, l’edificio comprende anche una clinica di riabilitazione, aree sportive, terapeutiche e di esercizio fisico. Ogni funzione è dotata di un ingresso autonomo e converge nella piazza centrale irradiata di luce come fulcro di incontro tra ospiti, personale e visitatori, dove si trova anche una cucina semi-professionale e dove gli ospiti della formazione secondaria preparano i pasti per il ristorante. La struttura puntiforme consente la massima flessibilità e adattabilità degli ambienti alle diverse esigenze che si dovessero presentare nel corso del tempo.
Da un punto di vista formale l’edificio ha un carattere “robusto”. La scelta del laterizio per gli involucri va nella direzione di durabilità e decoro, di cui accennavo all’inizio: è un materiale affidabile e altamente espressivo; inoltre, la texture – che evoca una rete da pesca – a due gradazioni cromatiche, giallo verso l’alto e marrone scuro verso il basso, consente alla facciata di non “sporcarsi” nel corso del tempo e invecchiare bene mantenendo invariate le caratteristiche originarie.
Negli interni particolare attenzione è rivolta ai materiali, prescelti per le loro qualità tattili e per il loro calore (come il laterizio) mentre sono stati evitati spigoli o angoli taglienti. I battiscopa e le cornici di porte e finestre sono colorati a contrasto in modo da rendere riconoscibili ambienti e ingressi.
Dal momento che crediamo che talvolta un approccio giocoso possa incentivare il processo terapeutico, i diversi materiali sono utilizzati anche a scopo ludico e di intrattenimento: gli ospiti possono esplorare gli spazi in modi diversi a seconda delle età, attraverso il gioco e lo sport: ogni ambiente è concepito in modo sicuro ma anche giocoso, in una sequenza di atmosfere sempre diverse. Anche in altre opere Lei ha sviluppato il tema dell’inclusività, sempre con particolare attenzione agli aspetti psicologici-emozionali oltre che tecnico-funzionali.

Mi riferisco a De Zeester a Noordwijk del 2007 e al Maggie’s Centre a Groningen, in questi giorni in fase di ultimazione. Ce ne vorrebbe parlare?
In entrambi gli interventi ho cercato di realizzare ambienti semplici e funzionali ma caratterizzati e accoglienti. De Zeester, (letteralmente, “Stella marina”, è un centro che offre attività diurne per i residenti del Centro di assistenza a persone con disabilità mentale a Noordwijk, NdA), è un volume appositamente compatto, per evocare un senso di riparo e intimità.
Il contatto con l’esterno avviene in sicurezza, in quanto gli spazi all’aperto sono inclusi nel sedime dell’edificio, evitando così spiacevoli recinzioni: dalle terrazze praticabili in copertura agli spazi al piano terra coperti dal volume aggettante. Anche qui, come in KCJ Heliomare, l’involucro in laterizio favorisce una percezione di solidità e affidabilità nel tempo, a cui si aggiunge un elemento fortemente caratterizzante: 275 oblò in ceramica che punteggiano la facciata, realizzati da artigiani con disabilità mentali e quindi ciascuno con le gradevoli imperfezioni proprie di una fattura manuale. L’impianto è chiaro e funzionale: uno spazio collettivo a doppia altezza costituisce il perno intorno a cui ruotano le attività; gli spazi distributivi tradizionalmente fatti di corridoi lunghi e stretti sono stati abbandonati a favore di luoghi di transizione fluidi e flessibili. 
La struttura a griglia consente la più ampia adattabilità degli ambienti, che possono essere uniti e riconfigurati in vari modi. Negli interni, particolare attenzione è stata rivolta alla luce, che filtra diffusamente dagli oblò e dal lucernario sulla piazza centrale e che, insieme ai pavimenti, rivestimenti e ai toni neutri delle pareti, favorisce atmosfere pacificanti.
Maggie’s Centre di Groningen (centro affiliato alla rete dei Maggie Keswick Jencks Cancer Caring Centers, voluta dalla moglie di Charles Jencks per offrire luoghi di cura, supporto e speranza ai malati di cancro, diffusasi a partire dal 1996 dal Regno Unito e successivamente nel resto del mondo, NdA) è il primo in Olanda ed è proprio in questi giorni in fase di ultimazione.
Il centro nasce nella convinzione che l’architettura possa svolgere un ruolo essenziale nel processo di cura e, conseguentemente, di guarigione.
L’idea è quella di creare un ambiente il più possibile famigliare, dove sia possibile una varietà di ambienti e atmosfere: luoghi di socialità e incontro, o di intimità e raccoglimento, a seconda dei diversi stati d’animo degli ospiti. Il design si ispira all’impianto del chiostro monacale ed è caratterizzato da una serie di contrasti: estroverso-introverso, aperto-chiuso, chiaro-scuro. All’impianto funzionale e flessibile, connotato da un nucleo attorno a cui si distribuiscono gli spazi terapeutici, di consulenza e confronto, di socialità e di relax, si aggiungono elementi di design e arredo dal sapore “domestico”: il camino, il pianoforte, l’illuminazione diffusa, le armadiature a muro, gli spazi verdi mirano a evocare un senso di calore e a irradiare fiducia e ottimismo. I fronti sono bivalenti. Verso University Medical Centre Groningen, la facciata “istituzionale” è un involucro massivo in laterizio con sottili fenditure vetrate; sul fronte più “privato”, la facciata prospiciente il giardino è smaterializzata, grazie alle ampie vetrate e ai pergolati di legno che lasciano filtrare il giardino con il canneto, invitando a sperimentare il passaggio delle stagioni. Anche qui, laterizio negli involucri e legno negli interni e negli spazi comuni all’aperto evocano atmosfere morbide e avvolgenti.

“The designs of Marlies Rohmer are tender and made with love”: così recita il report della Giuria dell’Amsterdam Prize for the Arts 2008, assegnato al Suo studio. Pensa che il fatto che lei è una professionista donna possa aggiungere un plusvalore al fare architettura?
Direi di no, non ne farei proprio una questione di genere. Con lo Studio abbiamo progettato opere di grandi dimensioni e interventi minuti, affrontando con entusiasmo le sfide più diverse. Non sono affezionata a un “genere” nel progettare. Il mio concetto di architettura si fonda su un’idea di spazio in cui si sta bene come in una “casa”; in cui si impara, ci si cura e si guarisce; un’architettura che mantenga nel tempo immutati integrità formale e costruttiva e il dialogo con il contesto, senza essere un oggetto avulso e autoreferenziale.
Un’architettura tutt’altro che concettuale ma calata concretamente nei bisogni materiali e immateriali di chi la vive. Un’architettura dove la normalità è un valore. Questo approccio è proprio di un’etica della professione in senso lato, senza prerogative di genere.

Chiara Testoni,
Architetto, PhD