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Fiorenzo Valbonesi

Il mestiere dell'attenzione

Fiorenzo Valbonesi (Santa Sofia di Romagna, 1952), si laurea nel 1977 a pieni voti presso la Facoltà di Architettura di Firenze, dove ha anche svolto attività di insegnamento. Nel 1990 fonda a Cesena lo studio asv3-officina di architettura. Nel corso degli anni si è dedicato a temi diversificati, dalla progettazione ex novo al restauro, dall’arredo al design. Dal 2000 si avvicina al mondo della produzione vinicola, ambito che non ha mai abbandonato e che ad oggi lo ha visto realizzare 14 cantine in Italia e all’estero.

 

Da oltre vent’anni anni, a partire dalla prima realizzazione (Cantina Campodelsole), il suo studio è tra i protagonisti indiscussi a livello nazionale e internazionale nel campo della progettazione di cantine. Cosa vi ha fatto “innamorare” dell’architettura legata al mondo della produzione vinicola?

Mi sono professionalmente avvicinato al mondo della produzione vinicola a partire dagli anni 1999-2000. Si trattava di un ambito molto diverso da quello di cui mi ero precedentemente occupato (residenziale, terziario, terziario avanzato e museale) e ne ho da subito colto il fascino intrinseco, per una serie di aspetti.
In primo luogo, il mondo della produzione vinicola racchiude in sé la suggestione dell’opificio, del luogo di lavoro e ha, come tutti i luoghi di lavoro, una forte centralità nella vita dell’uomo, che vi trascorre la maggior parte della giornata. Il tema della qualità dell’ambiente di lavoro è del resto un argomento di primaria importanza nella progettazione, sia oggi sia in passato.
In secondo luogo, c’è il tema del paesaggio. Progettare una cantina significa immergersi in un contesto di campagna dove gli elementi antropici sono minimi se non a volte inesistenti, e in cui non esistono le contaminazioni e le contiguità proprie dei contesti urbani. Progettare un manufatto in questi scenari implica una sfida importante, perché presuppone la responsabilità di costruire non “su” una collina o una pianura, come in un gesto autarchico e autoreferenziale, ma piuttosto “dentro” e “in rapporto” con queste.
Infine, progettare una cantina significa studiare e approfondire temi che non sono di diretta competenza di un architetto: affrontare argomenti nuovi, acquisendo le necessarie conoscenze, è sempre stata una caratteristica del mio operare. Per questo, progettare una cantina significa avvicinarsi al mondo dell’agricoltura e della produzione vinicola con la stessa umiltà e impegno di quando ci si accinge a progettare, per esempio, un aeroporto: imparando i processi, i meccanismi di funzionamento, la logistica, le tecnologie, sia che si tratti di gestire grandi flussi di persone sia che si tratti di produrre vino. Così, se dovessi progettare un aeroporto, partirei da capo, studiando con attenzione le esigenze e le caratteristiche di questo programma funzionale.
Allo stesso modo con cui mi sono avvicinato al tema dell’architettura delle cantine, oltre vent’anni fa.

Spesso l’architetto ha la tentazione di indossare i panni del “demiurgo”, facendo prevalere la propria volontà di auto-affermazione narcisistica rispetto alle reali esigenze di chi vivrà la sua opera. Come interpreta il rapporto con la committenza?

Il nostro mestiere mescola sogno e realtà, desiderio e concretezza. Di sicuro, un progetto non va avanti se si basa solo sui sogni e, nel caso di una cantina, finirebbe per non garantire la qualità del processo di produzione vinicola in cui il committente ha investito ambizioni e risorse. La cantina è in primis il rispetto per l’uva e l’architetto deve mettere le proprie competenze a servizio del vino. È il vino l’unico,
vero protagonista. Il lavoro dell’architetto è quello di “tramite”: deve trasformare gli obiettivi del committente e dei tecnici enologi in un fatto concreto, mettendo a servizio le proprie competenze per adattare il ciclo produttivo all’ambiente circostante, nel rispetto del contesto e dell’etica del cliente e attraverso un assiduo processo di studio, analisi, verifica in sinergia con tutte le altre professionalità coinvolte. Per questo il nostroruolo è quello di “accompagnamento” alla concretizzazione di un sogno, più che un’imposizione di idee o linguaggi espressivi preconfigurati.

Il suo lavoro si ispira ai valori della concretezza e del “saper fare”, secondo un’etica del mestiere che trascende le mode e aspira a una qualità architettonica autentica e durevole, anche grazie all’impiego di materiali semplici e naturali (come il laterizio). Come interpreta la frequente tendenza alla spettacolarizzazione del gesto architettonico, in un’epoca in cui l’apparire sembra sempre più spesso trionfare sull’essere?

Nella dicotomia tra “essere” e “apparire”, io sono irriducibilmente legato all’essere. Non mi interessa in alcun modo la spettacolarizzazione connessa alla volontà di apparire e di competere di un certo tipo di architettura, perché non credo che un progetto dimostri di essere più “riuscito” alla luce dell’imperativo del “famolo strano”. Per questo, nei miei progetti privilegio l’uso di materiali autentici e durevoli che sopravvivono alle mode e alle usure del tempo molto di più di alcuni sviluppati nell’ultimo quinquennio. La scelta del materiale dipende dal contesto, senza pregiudizi, e così impiego con lo stesso entusiasmo zinco-titanio e laterizio, pietra o acciaio: quello che mi interessa sono le caratteristiche espressive e tecniche del materiale in rapporto al luogo di intervento. Per esempio, a Campodelsole ho impiegato il laterizio perché la Regione Emilia-Romagna ha una storia ricchissima di uso di questo materiale, grazie al processo di trasformazione dell’argilla da cui nei secoli, da Roma antica a oggi, si sono costruiti centri storici, fortezze e nuclei abitati. Ovviamente ogni materiale ha le sue caratteristiche e i suoi limiti quando si progettano cantine di consistente estensione e volumetria. Ogni materiale ha un valore, dipende da come lo si usa.

Le sue architetture scaturiscono dallo studio approfondito del paesaggio nel quale l’opera si va a realizzare, pur mantenendo una configurazione sempre apertamente dichiarata ed estranea a interventi mimetici, e a volte anche con una forte valenza “scultorea”. Come vede il rapporto tra elemento artificiale e contesto naturale?

Viviamo il presente e dobbiamo raccontare un probabile futuro. L’operazione di mimesi è pura emulazione del passato, perché si ha paura del presente. Io non ho paura del presente, non penso proprio che “si stava meglio quando si stava peggio”. Oggi abbiamo a disposizione strumenti e tecniche nuove e performanti che non rifiutano il passato, come nel caso dell’impiego di materiali tradizionali e storicamente diffusi quali laterizio e la pietra, ma che non intendono tradire il naturale processo evolutivo della storia. Le mie opere - contemporanee? scultoree? Dipende dalla chiave di lettura che se ne vuole dare - possono piacere o no ma, indipendentemente da questo, scaturiscono dal mio tentativo di contribuire, per quanto di mia competenza, a prefigurare un mondo migliore.

Progettare una cantina significa non solo realizzare ambienti tecnicamente efficienti ma anche comunicare un brand, attraverso un’operazione narrativa tesa a raccontare il legame tra il contenuto e il contenitore, come tra il vino e la bottiglia che lo contiene. È difficile conciliare l’integrità progettuale con le ovvie esigenze di marketing della committenza?

Quando si ha un committente con una storia “antica” nella produzione di vino, come famiglie che si succedono in questa attività da oltre 20 generazioni, il brand è già definito e la cantina racconta lo spirito della famiglia che produce quel vino. Diverso è il caso di un’azienda che si affaccia sul mercato e deve cominciare a fare conoscere il suo prodotto. In entrambi i casi, tuttavia, l’intervento dell’architetto non è mai un’operazione “muscolare” per dimostrare una superiorità dell’uno rispetto all’altro ma, piuttosto, un tentativo di veicolare, attraverso l’opera costruita, il messaggio che ciascun produttore ama il suo lavoro, il podere e il paesaggio in cui opera, e che il vino è frutto di sacrificio, di ricerca, di cura. Non mi interessa il gesto teatrale dell’architetto ma saper interpretare al meglio lo spirito e la filosofia di chi dedica la sua vita a questo mestiere.

Lei si è formato a Firenze, dove ha anche svolto attività di docente. In una società attuale sempre più “fluida” (per parafrasare Bauman) e globale, continuamente in mutamento e dunque molto diversa da quella di vent’anni fa, cosa crede che sia irrinunciabile apprendere oggi per un giovane che si accinge a intraprendere il mestiere di architetto?

Ricordo che ai tempi dell’Università, negli anni ’70, noi studenti potevamo disporre di molti testi e di poche immagini. Sto notando invece che oggi, con internet e con la diffusione sempre più ampia e immediata delle informazioni, sta succedendo il contrario. Le immagini, e con queste la “rappresentazione” mediatica dell’architettura, stanno sostituendo il processo indispensabile di ricerca individuale, che origina da una sana curiosità intellettuale.
Risposte facili e veloci al posto di un processo conoscitivo critico e profondo, se vogliamo più impegnativo ma certamente più fruttifero. C’è una condizione fondamentale nell’essere architetto e, in generale, nell’approccio a qualsiasi professione: l’ossessione e il dubbio. Se non c’è l’ossessione, ovvero un anelito alla conoscenza e a traguardare obiettivi anche complessi, si finisce per “fare un mestiere” e non per “essere quel mestiere”. Non mi piace pensare che di me si dica che “faccio l’architetto”: preferisco nettamente che dicano che “sono un architetto”. Altrettanto importante è mettersi in discussione, non cristallizzarsi su paradigmi preconcetti ma accettare positivamente il dubbio: fare un passo avanti e due indietro, per poi procedere ulteriormente, non significa regredire ma affrontare con coscienza e responsabilità la sfida di un progetto, verificando che in ogni fase questo risponda alle esigenze reali di chi lo vivrà, perché quello che facciamo condiziona inevitabilmente la vita degli altri.
A 71 anni ci si accorge che, più si pensa di sapere, più ci si rende conto di non sapere. Un giovane oggi deve studiare, e studiare tanto, ma non attraverso i corsi di aggiornamento: deve viaggiare, leggere, mettersi a disposizione, confrontarsi e cercare di capire come affrontano il tema altri professionisti. Ai giovani, consiglio di esercitare il “mestiere dell’attenzione”. Questo è l’augurio più bello che mi sento di fare agli architetti di domani. 

Chiara Testoni,
Architetto, PhD