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Regno Unito/Llanbister  
John Pawson

The Life House

Solo nell’interiorità della riflessione è possibile virtualizzare il passato e il presente per proiettarli coscientemente nell’avvenire attraverso una sorta di sospensione, di stasi riepilogativa e rigenerativa, in vista del movimento futuro: momenti di raccoglimento e di silenzio quali “spazi protetti” dell’anima dove è possibile far riemergere ricordi, emozioni e attese, mentre l’immaginazione “gira” quando tutto apparentemente sembra fermo e senza voci. Ma mai come oggi siamo tutti sotto la cappa di una pressione mediatica, dove un’immanente energia informativa, densa, pervasiva, è sprigionata da un network globale che incombe sul cielodelle città e delle campagne. Il nostro presente è inscritto in un mondo “senza silenzio” nel quale siamo oramai costantemente inseguiti e raggiunti da invadenti notifiche (portatrici di “distrattive” immagini, parole , sonorità) che frammentano ed erodono ogni possibilità di concentrazione. Così gli spazi tesi a favorire l’introspezione e la riflessione – quali atti rigeneranti del corpo e della mente – sono diventati un “bene prezioso” (il vero “lusso contemporaneo”) e, conseguentemente, anche “merce” in vendita; si assiste così “all’apertura” di conventi e monasteri che accolgono ospiti laici, alla promozione di mete turistiche estreme – montagne, altopiani, deserti, mari lontani – che propongono la fuga dalla vita contemporanea, erogando tali offerte “a tempo” e “a pagamento” pubblicizzandole per il loro valore terapeutico.
Sotto la direzione del filosofo Alain De Botton il programma di Living Architecture – indirizzato alla ricerca di luoghi idonei in cui inserire nuove architetture intese come “spazi dell’anima”, “eremi contemporanei”, capaci di offrire condizioni di relax e riflessione – ha già al suo attivo numerose realizzazioni in Inghilterra.
The Life House, ideata da John Pawson, è la settima di queste “residenze-rifugio” e la prima costruita nel remoto e severo paesaggio del Galles, alle pendici di una piccola valle; la casa, di 260 metri quadrati, può ospitarevalle; la casa, di 260 metri quadrati, può ospitaresei persone – per una prolungata o brevepermanenza “rigenerativa” – in ambienti dotatidi privacy, integrati da un grande spaziodi comunità. Come sempre avviene quandoun’architettura viene eretta nel mondo s’assistealla creazione di un dentro e di un fuori.E proprio sull’accentuazione della coppia oppositivainterno / esterno va letta la propostaprogettuale pawsoniana. Ai due poli estremi sono allestite una stanzaipogea e una piattaforma all’aperto dotata didue panche murarie; l’obiettivo è di mettere adisposizione degli ospiti “spazi” capaci di trasmetterestimoli sensoriali fortemente differenziati:atmosfera tenebrosa, avvolgente,introspettiva (quella della stanza ctonia, appenarischiarata da una luce zenitale) e visionedilatata di contemplazione naturalisticaen plain air.
Nel mezzo di tali polarità sono interposti quattrovolumi: tre destinati al riposo degli ospiti(camere da letto, con servizi di relax e confortevolisale da bagno), il quarto relativo a unampio e luminoso salone (per le attività comunie di socializzazione) contrassegnato dauna sobria eleganza, senza nulla concedere alsuperfluo. A fungere da elemento di connessionedei diversi spazi è posto un lungo e prospetticocorridoio che dal chiuso della cameraipogea – piegando a 90° – giunge alla piattaformaesterna, aprendosi progressivamente alla luce.Sensibile all’incontaminato paesaggio circostante, Pawson innalza sul suolo bassi ed elementari volumi ottenuti attraverso il ritmo additivoe stratigrafico dei mattoni scuri dallamanifattura artigianale; coperture a falde, diminima invadenza formale, chiudono superiormentei volumi murari. L’esterno parla lalingua dell’elementarità tanto cara a Pawson:corpi edilizi bassi apparentemente convenzionali,banali (se sottoposti a uno sguardo superficiale) ma controllatissimi nelle proporzioni,nella reciproca posizione e – soprattutto– nei tagli angolari praticati nei muri laterizi.Gli interni sono, anch’essi, contraddistinti dasoluzioni architettoniche semplici ottenute attraverso superfici polimateriche (pavimenti “a terrazzo”, pareti in mattoni, tende in tessuto, soffitti e arredi fissi in legno d’abete) riunificate – grazie a un’accorta “prossimità” colorica impostata sui toni chiari del beige, dell’avorio, del bianco – in atmosfere spaziali luminose, serene e aperte visivamente sul paesaggio. Il riduzionismo della Life House trova, coerentemente, un rispecchiamento nelle posizioni teoriche espresse da Pawson: “Non è corretto dire che una stanza vuota è necessariamente spoglia e priva di carattere; è piuttosto il risultato di un processo di eliminazione. Si riduce, si semplifica e all’inizio c’è sempre meno da vedere; poi, a forza di ridurre, attenuare e comprimere, si giunge a superare una barriera, passando in un mondo parallelo, in cui a uno sguardo attento non appare il vuoto, bensì un senso di ricchezza.
Ci si accorge che esistono cinquanta diverse sfumature di bianco. Quando un oggetto è ridotto all’essenziale, le proporzioni prendono vita e la semplicità acquista di per sé risonanza e carattere.” 

Alfonso Acocella
Professore Ordinario, Dipartimento di Architettura, Università di Ferrara