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Luca Molinari

La casa, specchio del cambiamento sociale

Luca Molinari. Architetto, critico, curatore, professore ordinario di Teoria e Progettazione architettonica presso l’Università della Campania “Luigi Vanvitelli”. Direttore editoriale della rivista Platform Architecture and Design, collabora come autore indipendente con quotidiani e periodici italiani e stranieri. Nel 2014 fonda a Milano il proprio studio Luca Molinari Studio. Tra le sue ultime pubblicazioni: Stanze. Abitare il desiderio (2024) La meraviglia è di tutti (2023) e Le case che siamo (2016 e 2020).

Le case che siamo, poi anche la versione ampliata Le case che saremo, quindi Stanze. Abitare il desiderio. In quale rapporto stanno fra loro questi testi? Come si collocano rispetto al percorso personale dell’autore?
Dieci anni fa ho cominciato a intuire, che la casa oltre ad essere un luogo di sperimentazione per gli interni, era molto più complessa. Più che un luogo privato era un universo sociale, politico, simbolico e fisico, che attraversava il nostro tempo e rappresentava questa inquietudine della metamorfosi in corso. E nel luogo privato, dell’intimità possiamo dire, noi ci rappresentiamo in maniera più libera esprimendoqui le nostre inquietudini, tutto quello che è un tempo di cambiamento. Un altro pensiero che mi è sempre più chiaro è quello che con l’irrompere sempre più pervasivo dei social media e del cellulare nelle nostre vite quotidiane, la dimensione della privacy e della casa occidentale separata dalla strada è saltata completamente. Questi due elementi mi hanno fatto pensare che la casa fosse il vero luogo pubblico da indagare e nel 2015, ragionando di scrivere un libro, ho fatto una semplice ricerca di mercato, accorgendomi che non c’era niente. Ciò mi aveva ancora più convinto dell’idea, finché nel settembre del 2015 la mia amica Chiara Valerio, allora editor di Nottetempo, mi disse “ma perché non fai un libro?”. Così è nato “Le case che siamo”. Che ha avuto un incredibile successo. Io non ho mai smesso di interrogare le case perché non puoi farne a meno. È un luogo talmente simbolico, potente e interessante. Tre anni fa, Radio Rai mi chiese di fare un programma radio sulla casa ma io volevo fare un programma sulle stanze. Scendere un po’ di scala, perché man mano che osservavo la casa mi rendevo conto che ogni stanza è un mondo. Quindi scrissi 9 puntate per la radio e feci il programma. Ho poi risentito il mio editore per un secondo libro. Ho ripreso le puntate, le ho riscritte completamente e ho aggiunto altre stanze, una introduzione, di fatto ho fatto un libro nuovo. Sono contento perché in un qualche modo ho scalato, mi sono avvicinato ancora di più a questi luoghi. “Le stanze” era apparentemente la struttura di una casa borghese, molto tradizionale, ma in realtà non è proprio così. Nella parte finale smonto questo paradigma e arrivo a una riflessione sulla casa contemporanea dove le stanze si disgregano, si dissolvono, vaporizzano in uno spazio della casa, che è uno spazio di città, insomma che è tante cose insieme.

Questi suoi testi hanno indagato i temi della casa e attraversato la fase pandemica. Guardando indietro agli ultimi anni e al modo di vedere gli spazi della casa specialmente dall’interno, pensa che l’emergenza abbia lasciato effettivamente qualcosa nel nostro modo di considerare la casa?
Sì assolutamente. Sono convinto che la pandemia ha accelerato qualcosa che era già in luce. Penso che fossimo pronti a quella accelerazione imposta da un caso drammatico, che era già un’accelerazione nei fatti. Il fatto che tutti noi con tanta facilità abbiamo utilizzato i device per sopravvivere a questa solitudine esprimeva il fatto che già lo facevamo, lo abbiamo perfezionato. Il fatto che noi vivessimo la casa come un pezzo di città e non più come una casa privata era già nei fatti, perché la nostra vita sociale e pubblica passa attraverso anche ai telefoni e i computer. In più, l’essere stati obbligati per mesi in un ambiente solo come se non ci fosse più città è stato potentissimo e ci ha fatto accorgere che eravamo in una casa, che prima non la vedevamo, la abitavamo. È stato interessante perché ha imposto una vicinanza all’ambiente spaziale domestico che volente o non volente esisteva, una fisicità data dal tempo, dalla permanenza dei corpi, anche drammatica perché a volte le permanenze erano molto compresse, con tutte le contraddizioni del caso. In contemporanea o quasi subito dopo, si sono moltiplicate le logge nelle case nuove, i balconi molto profondi, nel design il tema dell’outdoor è diventato centrale. Oramai molte aziende progettano divani, sedie e tavoli che possono stare indifferentemente dentro e fuori. Questa cosa è indicativa della fluidità che ha acquisito la nostra vita, cioè la relazione dello spazio aperto deriva da questo fatto di soffocamento ma anche perché non ci piace stare più soli in casa. Quella dimensione mononucleare dell’appartamento e della casa in cui eravamo costretti dall’individualismo del dopo guerra è saltata. Siamo animali sociali e quindi abbiamo bisogno di case, di luoghi di relazione diversi.

La soglia, le relazioni, il digitale. Gli elementi di frontiera della casa salveranno le relazioni fisiche dall’esperienza solo digitale?
La casa italiana tradizionale o gli spazi pubblici italiani tradizionali hanno spesso il quarto lato che guarda sul paesaggio, la relazione tra interno ed esterno con le finestre, le logge, i balconi, che inquadrano frammenti di paesaggio, le piazze, le città. Noi abitiamo quello che Le Corbusier definisce “promenade architecturale”. Il famoso quarto lato è una cosa che ci appartiene, perché abbiamo una relazione molto forte tra l’abitare e un paesaggio che è sempre stato fortemente antropizzato.

Già nelle considerazioni di Giò Ponti sulla casa italiana, questo rapporto con l’esterno è suggerito da un clima favorevole.
Certo. Nell’architettura contemporanea italiana, quella residenziale ma non solo, una certa interdipendenza tra interno e esterno è molto forte. Raramente abbiamo edifici che si chiudono verso l’esterno. E i nostri piani terra sono piani terra in cui domestico e pubblico si incontrano sempre di più. Questa cosa rende il piano terra della città uno spazio sempre semi domestico, semi pubblico. Tutto questo fa parte di una dimensione fisica, antropologica, culturale, connaturata nel nostro modo di abitare lo spazio e concepirlo, e quindi a maggior ragione anche nell’architettura contemporanea vedi sempre di più esempi che perseguono questa tradizione.

Le case sono sempre di più degli elementi individuali, rispetto a una cultura della città che è quella che ci ha contraddistinto fino a qualche decennio passato, in cui la casa era parte fondante della pianificazione della città. Le città hanno dunque perso la loro complessità e sono ora la somma di elementi singolari?
È un tema molto forte del secondo dopoguerra, perché ancora prima tra gli anni ‘20 e ‘30 il senso di confine della città era molto ben delineato, ed era figlio del boom economico, di una individualizzazione dell’abitare, del fatto che le città sono cresciute di 5-6 volte in 20 anni e quindi milioni di persone si riversavano nelle città chiedendo una casa. E in quel momento molto drammatico e importante si è pensato di costruire oggetti invece che città. Questo è il grande tema di oggi, l’eredità di quel magnifico tentativo democratico di dare una casa civile a tutti. Che è una cosa importantissima, di cui non dobbiamo mai dimenticarci. Oggi ci lascia come eredità il bisogno di costruire città tra gli oggetti. Avendo fatto gli oggetti e non avendo più città, dobbiamo tenerci gli oggetti che sono stati costruiti e costruire città come tessitura o come rigenerazione - riconciliazione tra gli oggetti e gli ambienti, che è molto più complicato. Poi c’è un altro elemento molto importante che non dobbiamo sottovalutare per i prossimi decenni. Nei prossimi 20 anni, e lo dicono molti specialisti, vivremo un progressivo rallentamento della curva demografica nel mondo, che tenderà ad assestarsi e a calare. Questo sta già avvenendo in Cina e in India. Significa che le città che dovremo pensare per i prossimi decenni sono da pensare con una popolazione più fragile, più anziana, più contenuta, diradata e questo ci consegnerà anche decine e decine di oggetti vuoti, di case vuote. Noi abbiamo costruito case per una crescita demografica tumultuosa e sempre di più ci troveremo a confrontarci con aree urbane deserte. Questo sta avvenendo in Giappone nella periferia di Tokyo, è il problema di molte città, il problema delle “shelter cities” ed è un tema su cui si sta facendo poca considerazione ancora, ma io credo che sia un tema importante e che ha a che fare con il progetto dell’architettura, perché vuol dire “come comportarsi con questo patrimonio edilizio? cosa fare?”. Le città in espansione sono e saranno più contenute. Dovremo gestire anche una metamorfosi ambientale importante, un clima totalmente differente. La tropicalizzazione delle nostre città è un altro tema enorme. Abbiamo dei temi di fondo molto generali che imporranno all’architettura un cambio di rotta. E c’è stallo dettato dall’economia, dalla politica, dalla società, come sempre no? Questo credo che sia una questione enorme, anche molto stimolante.

Due dei progetti proposti all’interno di questo numero della rivista affrontano il tema della casa italiana in rapporto alla complessità della città. Cino Zucchi lavora sugli affacci della città confinante, quindi offre balconi e spazio pubblico ai residenti; Barreca & La Varra articolano logge e spazio per lo svago in un intervento di social housing. Quale convivenza è possibile oggi fra gli spazi della casa e quelli della città?
Sono convinto che una delle materie forti dei prossimi anni è quella che io chiamo “il corpo sottile” cioè il fatto che lavoreremo per integrazioni all’esistente, lavorando per corpi sottili che risignificano, il costruito. Andremo anche necessariamente per abbattimenti, perché non possiamo tenere tutto. Non ci serve a niente. E quindi a maggior ragione il valore della terra, del suolo, delle risorse coinvolte, diventerà ancora più urgente, perché saranno più scarse. Dovremo quindi lavorare con perizia e consapevolezza di questa cosa. Il tema della casa in Italia è un paradosso, perché da una parte diciamo giustamente di avere bisogno di nuove residenze, ma dall’altra abbiamo un patrimonio edilizio che deve essere completamente rinnovato e energicamente ripensato. Dove ancora c’è una parte nell’edilizia sociale di appartamenti sottoutilizzati. Dove nelle città ci sono gli appartamenti medi della classe ceto medio borghese da 160-180 metri quadrati, per due persone. Quindi in realtà la dimensione è più virtuosa, non si tratta di costruire tanta edilizia in più, ma di ripensarla. E questo è molto complicato. Il patrimonio costruito è sottoutilizzato da una parte, dall’altro va rivalutato e in molti casi sostituito. Negli ultimi anni sono stati piuttosto frequenti interventi focalizzati sull’applicazione dei cosiddetti cappotti commissionati da Comuni e Amministrazioni Pubbliche su impianti degli anni ‘30, ‘50 e ’70, le cui necessità però non sono esclusivamente di isolamento termico ma anche di diverso utilizzo delle logge, di balconi, di piani terra e tetti, di tagli degli alloggi che devono essere riconfigurati. Questo modo di operare è abbastanza rischioso e delicato, perché effettivamente costerebbe molto di meno abbattere e ricostruire. Ho visto un intervento recente molto interessante curato dallo studio di Camillo Botticini, che ha riguardato una palazzina degli anni ‘30 di edilizia popolare a Brescia restaurata come se l’edificio fosse del ‘500, con dei costi decisamente più alti perché l’edificio era vincolato, sebbene fosse edilizia ordinaria. I progettisti, obbligati dalla soprintendenza, hanno dovuto lavorare ad un restauro come fosse un palazzo del Palladio. Un vero paradosso, perché con l’abbattimento e la ricostruzione avrebbero comportato una qualità ambientale, una riflessione sugli alloggi e un risultato di efficientamento energetico completamente differenti.

Il laterizio è un materiale sostenibile, della tradizione, ma anche interprete dell’innovazione. I nuovi requisiti prestazionali spingono la ricerca verso nuove applicazioni anche dei prodotti più consueti dell’edilizia. Sono la naturalità e la salubrità condizioni imprescindibili per la casa?
Il laterizio ha una meravigliosa capacità di invecchiare bene. Credo che la questione della sostenibilità passi molto attraverso l’aspetto della manutenzione. L’invecchiamento è un dato di sostenibilità perché l’investimento iniziale viene assorbito nel tempo da una qualità del manufatto che invecchiando bene non chiede sforzi ed energie fisiche, mentali, economiche. Questo è un fattore centrale. Il laterizio è il classico materiale tradizionale che viene reinterrogato continuamente in termini fortemente contemporanei. Ciò è straordinario. Credo che l’architettura italiana da sempre abbia usato il laterizio in maniera contemporanea e moderna. Anche le architetture rurali più anonime, a volte usano il materiale laterizio in una maniera singolare. Trovo sempre un uso felice di questo materiale che, grazie all’incomparabile longevità, permette una qualità espressiva infinita e di appartenere ad un flusso continuo della storia, senza mai tradire la contemporaneità. Anche perché come spiego ai miei studenti il laterizio può essere anche tinteggiato: io, il laterizio bianco lo trovo incantevole. Nel sud Italia, il laterizio imbiancato è una delle cose più belle. Quindi, sinceramente non è un tema di materia e di colore, ma di verità della materia. La materia parla in verità in tanti modi. Sono convinto poi che anche ai fini dell’isolamento termico, le soluzioni per l’involucro edilizio più sono legate a materiali che hanno una storia consolidata di salubrità e con un’effettiva resistenza all’usura, più hanno un senso e una reale efficacia. Altrimenti diventano un’altra camicia di forza dell’architettura, altro che cappotti. Tutte le sperimentazioni che portano materiali, di origine naturale, come il laterizio a esprimersi in maniera contemporanea sono benvenute e necessarie.

 

Alberto Ferraresi,
Architetto, libero professionista