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Proctor and Matthews Architects

L’architettura sensibile di Proctor and Matthews Architects

Proctor and Matthews Architects è uno studio di architettura e urbanistica con sede a Londra. Fondato nel 1988 da Stephen Proctor e Andrew Matthews, vanta a oggi un ampio portfolio di interventi realizzati, sia in ambito pubblico che privato, in Inghilterra e all’estero, nonché numerosi premi e riconoscimenti a livello internazionale.

Stephen Proctor e Andrew Matthews, siete stati nominati Visiting Professors alla Sheffield School of Architecture, dove siete stati entrambi studenti. Qual è stato l’iter formativo che vi ha portato a diventare gli architetti che siete oggi?

Nel corso degli anni ‘70 e ‘80 la Sheffield University School of Architecture si è costruita una forte reputazione nel Regno Unito per l’integrazione di design e tecnologia. La scuola era guidata da due eminenti professori, David Gosling e Ken Murta, le cui forti personalità hanno plasmato la scuola e l’hanno condotta ai vertici della formazione in architettura nel Regno Unito. Il Professor Gosling ha costruito un gruppo invidiabile di critici esterni e visiting professors, che ha dato alla scuola un forte profilo. Nello stesso periodo all’interno della scuola c’era una particolare attenzione verso l’emergente Urban Design e ciò ha influenzato il nostro lavoro successivo. Siamo sempre stati interessati a progetti che si impegnano a tutte le scale; dalla grande scala urbana all’assemblaggio dettagliato dei componenti, e al modo in cui nei progetti la grande scala influenza la piccola scala e viceversa. A Sheffield abbiamo anche iniziato a capire l’importanza di stabilire rapidamente una forte poetica del progetto, con proposte che portano il concept attraverso l’inevitabile «campo minato» – le fasi prolungate degli appalti di costruzione – dall’avvio alla conclusione. 

Come è cominciata la vostra collaborazione e come è organizzata oggi la vostra attività?

Abbiamo fondato Proctor e Matthews nel 1988 mentre eravamo entrambi insegnanti a tempo parziale presso l’Università di Sheffield (e successivamente presso l’Università di Brighton). Sembrò una naturale prosecuzione. Dopo molto tempo trascorso assieme come studenti continuammo a collaborare in concorsi di progettazione la sera e nei fine settimana, mentre lavoravamo negli studi di Colin St John Wilson e Partners, Nicholas Lacey Jobst & Hyett e James Stirling Michael Wilford and Partners. Stephen aveva lavorato per breve tempo nell’unità progettazione urbana al London Docklands Development Corporation (un ente governativo con sede a Londra) con David Gosling e Gordon Cullen come consulenti. 

Quando il capo esecutivo Reg Ward ha lasciato la Corporation, ha contribuito a fondare il nostro studio, sostenendolo con progetti urbani nel Regno Unito e all’estero. Ciò ha permesso di realizzare un portfolio di base di studi su larga scala in cui gradualmente abbiamo iniziato a costruire un insieme di progetti più piccoli (asili nido per bambini, piccoli uffici governativi locali e una tantum progetti residenziali). Entrambi abbiamo continuato a lavorare a stretto contatto su tutte le commissioni all’interno dello studio e nel corso degli anni abbiamo costruito un nucleo di architetti e designer di talento che contribuiscono a realizzare ogni progetto.

All’interno del vostro studio operate con una vasta gamma di «scale», da quella regionale e urbana a quella dell’edificio, fino a definire elementi architettonici e specifiche dei materiali. In quale fase del vostro lavoro iniziate a pensare ai materiali con cui costruire i vostri progetti, ai dettagli e ai metodi di costruzione?

Siamo sempre stati interessati al dialogo che esiste tra la grande scala e la piccola scala nella progettazione, e al modo in cui i nuovi edifici o le proposte urbane sono ancorati ai loro contesti. A questo proposito ci interessa la «consistenza» e il
«colore» del contesto fin dalle prime fasi di qualsiasi proposta progettuale indipendentemente dalle dimensioni. Un approccio contestuale al progetto non è solo focalizzato su problemi fisici di scala, grana, colore, topografia e materialità, ma anche sui profili sociali, politici e culturali di un territorio. Quando l’idea progettuale comincia a emergere in risposta a tutte queste qualità contestuali, le discussioni sulla metodologia della costruzione evolvono anch’esse in parallelo. All’inizio di un progetto non abbiamo mai una nozione preconcetta di come esso si evolverà o come sarà costruito. Ciò emerge durante il processo di progettazione.

Nel vostro libro «Pattern Place Purpose» pubblicato da Black Dog Publishing nel 2009, avete dichiarato che «l’architettura deve cominciare e finire con le necessità e le aspirazioni sia dei singoli che della collettività». Quale pensate sia attualmente il ruolo, la funzione sociale e culturale dell’architetto?

Un mondo sempre più orientato allo sviluppo del mercato richiede agli architetti di essere, ora più che mai, i custodi di due regni: quello del privato cittadino e quello delle esigenze collettive di poter disporre di uno spazio comune. Città vivibili richiedono una capacità degli individui di ritirarsi in spazi di tranquilla contemplazione attraverso una serie di soglie che generano un immediato senso di appartenenza alla comunità. Allo stesso modo le comunità possono non avere alcun senso di identità all’interno di una città se non dispongono di spazi pubblici ben progettati dove riunirsi. 

Nel vostro lavoro, l’involucro edilizio è molto importante. Qual è la vostra concezione di «involucro»? Solamente una separazione fisica tra l’interno e l’esterno o esso assume altri significati?

Per noi l’«involucro» edilizio è parte integrante della composizione architettonica né più né meno importante della disposizione interna. L’involucro è la soglia tridimensionale tra gli spazi interni e la sfera pubblica. In alcuni dei nostri progetti a scala urbana enfatizziamo l’importanza dell’involucro, un elemento delle volumetrie degli edifici che nel Regno Unito è spesso trascurato. I progettisti sovente pongono troppa attenzione alla disposizione interna delle case a scapito del modo in cui queste possono contribuire al paesaggio urbano circostante. Nei progetti di lottizzazioni, sia il «collettivo» che l’»individuale» richiedono una voce ed espressione: gli spazi di interazione tra il vicinato devono essere articolati così come l’identità di ogni singola casa. Ciò può essere ottenuto considerando l’involucro edilizio come il mediatore tridimensionale tra le sfere pubblica, comunitaria e privata dell’ambiente urbano.

Perché usate così spesso il laterizio nei vostri progetti? Quali sono le qualità che apprezzate maggiormente in questo materiale?

Come studio, siamo sempre stati interessati a un’architettura che risponda al contesto e alla poetica di un luogo. Volendo evitare l’applicazione in qualche modo pedissequa e superficiale dei materiali storici locali in prima battuta, abbiamo invece privilegiato un approccio più strutturato, morfologico e culturale alle questioni del contesto. Non sorprende che prima della nostra collaborazione con Ralph Erskine nel 1999 al Greenwich Millennium village, avevamo completato solo due edifici in laterizio. Il nostro lavoro precedente aveva spesso cercato modi di costruzione non tradizionali, per offrire una risposta contestuale e rispondere al desiderio di un’architettura più sensibile all’ambiente. È solo negli ultimi anni che il nostro studio ha iniziato a esplorare le qualità strutturali della muratura e in particolare la sua applicazione alla progettazione residenziale. Nel Regno Unito il laterizio è sempre stato il materiale tradizionalmente privilegiato per la costruzione di abitazioni nelle aree urbane (vengono subito in mente le abitazioni a schiera georgiane e vittoriane), ma negli ultimi anni (anche se ancora favorito dalle imprese costruttrici) il laterizio è stato semplicemente usato come soluzione economica e a bassa manutenzione, con poca attenzione al suo potenziale figurativo. Come conseguenza gran parte della recenti abitazioni nel Regno Unito è caratterizzata dall’uso ripetitivo e monotono di murature a cortina, che creano poco o nessun senso di identità e risultano prive di ogni qualità apparente. Il nostro approccio (molto influenzato dal lavoro di Erskine, ma anche dalla tradizione inglese del movimento Art and Craft) è quello di esplorare e sfruttare la materialità strutturale dell’argilla articolando superfici significative o disposte in zone strategiche. Tali superfici sono spesso usate per evidenziare aree importanti nel paesaggio urbano, individuare singole abitazioni all’interno di un complesso a schiera (Great Court a Great Kneighton) o sono configurate come pannelli forati per massimizzare la privacy e investire sul risultante gioco etereo di luce in cortili chiusi o spazi comuni (Hargood Close, Colchester). Con la crescente domanda di efficienza energetica e sostenibilità ambientale stiamo indagando i modi in cui la qualità artigianale di questo materiale tradizionale può essere combinata con metodi di costruzione tecnicamente più sofisticati per la realizzazione di involucri edilizi di carattere.

Con il vostro lavoro avete ricevuto molti importanti premi e riconoscimenti. Ritenete che la vostra «poetica» oggi sia ormai consolidata e basata su alcuni punti fermi o sia ancora alla ricerca e in movimento verso nuove direzioni?

Pensiamo che sia possibile identificare un atteggiamento di fondo nell’approccio ai progetti all’interno dello studio. Questo è incentrato sulla necessità di esplorare una poetica di progetto che ha spesso a che fare con una risposta al contesto specifico o forse all’elemento nascosto di un bando, che possiamo portare in superficie per farla agire come l’»armatura» dell’intero progetto. Nel lavoro di James Stirling per esempio vi è spesso l’esplorazione del concetto di «passeggiata». Questo non è necessariamente un elemento che fa parte della funzione o del disegno, ma diventa il principale «organizzatore spaziale» tridimensionale all’interno dei suoi edifici. Questo è ciò che continuiamo a perseguire nel nostro lavoro. A parte questo, la «poetica» è sempre in evoluzione; il modo in cui le idee vengono generate nello studio è un dialogo in continua evoluzione e, naturalmente, siamo entusiasti della possibilità di ricercare e raggiungere nuove direzioni nel nostro lavoro.

Elisa Di Giuseppe
PhD, Università Politecnica delle Marche